da il Riformista del 23 dicembre 2008 di Francesco De Leo
“Continuerò la mia lotta in qualunque altro ufficio…fino all’ultimo giorno che avrò vita”, ha detto ieri l’avvocato Shirin Ebadi dopo l’irruzione della polizia iraniana nella sede della sua associazione, il “Circolo dei difensori dei diritti umani”, a Tehran. “Attività illegale. Si chiude, tutti fuori!”, le avevano urlato domenica pomeriggio i poliziotti presentatisi alla porta dello studio dove da anni lavora con passione e coraggio alla difesa dei più deboli. Di illegale c’era solo la mancanza di un regolare mandato, di cui è stato presentato il numero identificativo e non il documento. “Basta la divisa” la risposta alle obiezioni. L’accusa è di non possedere il permesso allo svolgimento delle sue attività, considerate politiche, e per questo minacce, insulti, perquisizioni e sigilli alle porte.
“Prima non è stato fatto alcun inventario”, la denuncia dell’Ebadi, preoccupata dalla possibile fabbricazione di prove false. “Dichiaro già da adesso che mi aspetto che abbiano messo documenti e oggetti incriminanti che non si trovavano in ufficio prima del blitz”. Era piena di neve la strada che ospita lo studio di Shirin Ebadi a Tehran, qualche mese fa, quando ebbi modo di incontrarla. L’Iran era in procinto di entrare nell’anno 1387 e bianco era il colore che dominava una città infreddolita da una temperatura che aveva toccato i -27°. “Deve attenderla un attimo…è al telefono”, mi disse la gentile segretaria della prima donna iraniana e musulmana a cui sia stato conferito il Premio Nobel per la Pace. “Si accomodi pure qui intanto…”, continuò, accompagnandomi in una saletta d’attesa in cui faceva bella mostra una fotografia dell’Ebadi giovanissima, ritratta negli anni in cui studiava diritto. Studiò giurisprudenza all’Università di Tehran e subito dopo la laurea superò gli esami per diventare magistrato. Il suo sogno lo raggiunse, fu presidente di una sezione del tribunale, ma come tutte le donne giudice, dopo la Rivoluzione Islamica, fu costretta ad abbandonare la magistratura. Solo nel ’92 ottenne l’autorizzazione ad operare come avvocato, riuscendo ad aprire un suo studio. “Prego è pronta…può seguirmi…”, la segretaria mi indicò la stanza dell’Ebadi e con un elegante sorriso mi fece cenno di entrare. L’avvocato era seduto alla scrivania, con la penna in mano, il capo chinato, concentratissima nel suo lavoro. La stanza non era molto illuminata, piccola, ma piena di libri e ricordi alle pareti. In evidenza la pergamena del Nobel per la Pace che riportava a quel 10 dicembre 2003, un grande successo per le donne iraniane e per tutti quei liberali e dissidenti che nella sua carriera ha difeso con grande dedizione. Oggi l’Ebadi è docente presso l’Università di Tehran e sostenitrice attiva dei movimenti per i diritti femminili e dei bambini. Vive a Tehran con il marito e le due figlie. “Benvenuto…”, mi disse sorridendomi, mentre, tradendo stanchezza, stropicciava gli occhi con la mano. Tanto lavoro?, le chiesi. “Non immagina quanto…c’è sempre tantissimo da fare qui”. Guardò l’orologio con l’aria di chi non ha possibilità di impiegare tempo per i convenevoli. Le chiesi dell’Iran, si era alla vigilia delle parlamentari. “Queste elezioni non sono libere!…perché la gente non può votare chi vuole. Pensi che l’idoneità e la moralità dei candidati dev’essere riconosciuta dal ‘Consiglio dei Guardiani’ e il popolo potrà votare solo chi è passato da questo filtro. Non le considero libere e mi asterrò dal partecipare a queste votazioni”. Parlammo di pena di morte, “mi dispiace veramente che esista in Iran…e purtroppo è molto eseguita. Il peggio è che persino minorenni vengono condannati a morte in questo Paese. Tutti i miei sforzi non sono serviti a molto, ma approfitto di ogni occasione per esprimere con forza la mia posizione”. Rientrò la segretaria per offrirci del tè caldo. “È quel che ci vuole con questo freddo…”, disse, mentre sorseggiava. Non riusciva a rilassarsi, con la mente era al suo lavoro e poi sembrava soffrire tanto nel parlare in quel modo del suo Paese. Fu allora che le domandai se dopo la notorietà seguita al Nobel temesse ancora per la sua sicurezza. Prima sorrise con sarcasmo, “non dimentichi che il governo iraniano cercò di nascondere in ogni modo l’attribuzione di questo premio”, poi si arrestò e dopo un sospiro, mi guardò negli occhi. “Sì, certo”, mi rispose, “non è cambiato nulla…”. E’ proprio così, Ahmadinejad prosegue impunemente per la sua strada e siamo solo all’inizio della sua campagna elettorale.
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